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Il commercio soffre e i quartieri si degradano: non può essere solo questione di mercato

Il commercio soffre e i quartieri si degradano: non può essere solo questione di mercato

L'editoriale del Presidente di Audis Tommaso Dal Bosco
Negli ultimi anni, il fenomeno della chiusura dei locali commerciali nelle città medie italiane si è accentuato, alimentando una spirale di degrado urbano difficile da invertire. Sebbene manchino dati dettagliati per singole città, l'evidenza empirica e gli studi sulle dinamiche urbane suggeriscono che il fenomeno sia più grave nelle realtà meno integrate nei circuiti turistici e nei poli economici nazionali.

Secondo gli operatori del settore, in molte città italiane la proprietà degli immobili commerciali è concentrata nelle mani di poche famiglie, una condizione che influisce significativamente sulle strategie di locazione e utilizzo degli spazi. In un contesto di mercato statico, i proprietari spesso ereditieri che hanno preferito carriere internazionali al proseguimento del piccolo commercio di famiglia e di vicinato, preferiscono mantenere i locali vuoti piuttosto che adeguare i canoni alle mutate condizioni economiche, alimentando una crescente desertificazione commerciale.
A livello di quartiere, diversi studi indicano che, quando il tasso di sfitto dei locali commerciali supera il 25%, il rischio di declino irreversibile diventa concreto. Questo fenomeno è ben evidente in molte città medie della provincia italiana, non solo al Sud, dove il livello di sfitto sembra essere sensibilmente più alto della media nazionale. Il problema è aggravato dalla mancanza di strategie efficaci per la riqualificazione e il riutilizzo degli spazi, nonché dalla difficoltà di attrarre nuove attività imprenditoriali.

A differenza delle grandi città turistiche come Milano, Roma o Firenze, dove la domanda di locali commerciali resta elevata, nei centri urbani di medie dimensioni l'offerta supera di gran lunga la richiesta. Il risultato è una paralisi del mercato che ostacola la nascita di nuove attività economiche e, in definitiva, frena le possibilità di sviluppo urbano.
Il nodo centrale della questione è la mancanza di politiche di incentivo e strumenti di governance adeguati a gestire questa trasformazione. E le amministrazioni locali si trovano a dover fronteggiare la crisi con una leva fiscale spuntata o piccoli e complicatissimi incentivi derivanti dai soliti episodici bandi regionali o statali. 

Non manca qualche esperienza incoraggiante come i distretti del commercio ma, paradossalmente, anche questi, proprio quando funzionano, finiscono per ingrassare la rendita piuttosto che incoraggiare il rischio d’impresa. In questo scenario, emerge la necessità di una revisione delle politiche urbane incentrata su nuovi strumenti di mediazione tra pubblico e privato. Modelli innovativi, come la fiscalità premiale per chi riconverte gli spazi sfitti, o la creazione di fondi immobiliari partecipati per perequare i valori tra centro e periferia, potrebbero favorire un utilizzo più flessibile e dinamico del patrimonio immobiliare commerciale cittadino. 

Non è e non può essere solo una questione di mercato. È un problema strutturale. E la proprietà immobiliare non può limitarsi alla rendita passiva sottraendo spazi vitali alla città, ma deve essere bilanciata da strumenti che incentivino l'uso attivo e produttivo degli spazi, garantendo un tessuto commerciale dinamico e accessibile, nonché uno sviluppo urbano sostenibile e inclusivo.

Questo significa inquadrare il tema del declino del commercio di vicinato dei centri storici e dei cosiddetti “piano terra” delle nostre città in un’ottica integrata e rigenerativa. Non per i commercianti o per i proprietari, ma per la città.

 

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Foto di Evan Wise su Unsplash


05/03/2025
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