L'editoriale del Presidente di AUDIS Tommaso Dal Bosco
È uscito un interessantissimo libro di Giulio Buciuni e Giancarlo Corò “Periferie Competitive – Lo sviluppo dei territori nell’economia della conoscenza” (il Mulino – 2023) che mi sembra riposizionare utilmente il tema della rigenerazione urbana e dei territori. Soprattutto lo fa in modo documentato e sufficientemente assertivo.
Le previsioni sulle opportunità di crescita e la riduzione delle distanze tra centro e periferia promesse dalle nuove tecnologie digitale e dall’economia della conoscenza, si sono rilevate fallaci. In realtà stiamo infatti assistendo ad un ampliarsi inesorabile delle disuguaglianze sia sul piano sociale che su quello territoriale e, gli stessi studiosi che hanno cantato le magnifiche sorti e progressive dei processi di digitalizzazione dell’economia (Rifkin, Florida, Porter) sono costretti oggi a registrarne il fallimento e anzi, a prendere atto anche dei suoi effetti perversi come quello della polarizzazione politica denunciato da Rodriguez-Pose che vede concentrarsi il voto anti-sistema nei “territori che non contano nulla” che consumerebbero così la loro “vendetta” verso quelli che invece prosperano di talenti, creatività e quindi di investimenti e servizi come le “città Alpha” di regola politicamente orientate in senso progressista.
Il libro, frutto di una lunga e approfondita ricerca avviata già nel 2016, documenta in modo inequivocabile i processi di concentrazione delle attività di innovazione su scala globale ma noi osserviamo il medesimo fenomeno sulla micro-scala delle nostre aree metropolitane e ci rendiamo conto che i movimenti dal centro alla periferia e viceversa, fotografano esattamente queste disuguaglianze.
Eppure, le parole d’ordine e lo schema di gioco con cui affrontiamo i problemi della trasformazione urbana rimangono invariati nonostante gli evidenti insuccessi: piani, bandi, finanziamenti pubblici, opere pubbliche, appalti, partenariato pubblico privato e così via.
Così, la città che porta con sé il massimo della reputazione nella sua capacità di rigenerarsi – Milano – in realtà risulta la più disuguale di tutte evidenziando il rapporto più sbilanciato di valori tra centro e periferia.
E il motivo è molto semplice e si basa sul meccanismo più antico dell’economia: la rendita fondiaria. Che a sua volta produce tanto più valore quanto più è esclusiva. Quindi: più povera e inospitale è la periferia, più alte sono le motivazioni che spingono a muovere verso il centro.
Ma si può imputare alla città il fatto di generare questa disuguaglianza? O siamo piuttosto di fronte a un processo ineluttabile in cui la città addirittura si trova a farsi carico delle disuguaglianze più ampie presenti sul territorio?
Il problema non è di facile soluzione. Gli autori spiegano il fenomeno facendo la differenza tra conoscenze scientifiche e conoscenze produttive. Le seconde, infatti, a differenza delle prime, nascendo dalla necessità di rispondere ad esigenze pratiche hanno bisogno di essere scambiate attraverso relazioni informali che maturano in ambiti lavorativi e quindi tendenzialmente localizzate.
Ma come si fa ad ordinare lo stock di conoscenze produttive presenti su un determinato territorio con lo scopo di distribuirne in modo diversificato e razionale le specializzazioni al fine di favorire una crescita meno polarizzata?
Una delle grandi criticità che affligge le nostre città ma, direi più in generale, i nostri territori, il nostro Paese, è l’assoluta inadeguatezza della governance dei processi decisionali. Da non confondere con (o non solo con) la vischiosità delle burocrazie.
Si pensi solo a quella delle città metropolitane, governate ope legis dal sindaco del capoluogo. Questi, eletto appunto solo nel capoluogo, potrebbe prendere decisioni che influenzano anche gli altri comuni metropolitani. Il rischio di conflitto di interesse è tuttavia largamente ridotto dal fatto che non ha strumenti cogenti per intervenire sull’area vasta che quindi rimane amministrata dalla vecchia Provincia, però più povera.
Così, se volesse occuparsene - come in realtà servirebbe – si troverebbe a dover negoziare con una miriade di comuni su temi decisivi per la qualità della vita delle persone che vi abitano.
Ad esempio, sulla mobilità: come devono essere distribuiti i servizi sul territorio per ridurre la schiavitù delle persone da una mobilità necessitata per raggiungere il lavoro o i servizi principali?
Prendendo lo spunto da uno dei problemi emersi in questi giorni grazie alla protesta degli studenti per il caro affitti, come pensiamo si possa cercare di dare una risposta a questo problema se i 660 milioni precipitosamente stanziati dal governo andranno a supportare processi di finanziamento fondati sulla valorizzazione di asset privati candidati da proprietari di aree o immobili da trasformare senza pensare alla loro localizzazione?
La stessa cosa potrebbe dirsi di un’altra funzione fondamentale da regolare, quella della logistica. Specialmente quella dell’ultimo miglio. Il fatto che ciascun operatore scelga il posto che gli è più congeniale per dimensioni o localizzazione senza considerare gli impatti che questo avrà sul traffico, quindi sui tempi, sull’incidentalità, sulle emissioni e, non di meno, sul paesaggio urbano.
Non può essere l’interesse privato, per quanto legittimo, a guidare le scelte di localizzazione dei servizi sul territorio altrimenti si alimenterebbe l’entropia legata alla mobilità e a cui, a valle, diventa sempre più difficile, se non impossibile, porre rimedio da parte dell’amministrazione.
La transizione ecologica ha messo in luce una tale ampiezza e profondità delle degenerazioni territoriali e sociali -in molte città, all’interno di molti Paesi e nel mondo- che il concetto di rigenerazione deve essere oggi nuovamente definito rispetto al suo significato originario, fino a comprendere quegli interventi territoriali di area vasta che finiscono per avere effetti alla scala del quartiere, dell’isolato o del singolo “vuoto” urbano che ci pareva di poter trattare a prescindere dal contesto.
E la governance dei processi decisionali che vi presiede non potrà essere definita per via amministrativa, avrà bisogno di strumenti più efficaci e flessibili in modo da poter aderire alla scala dei principali fenomeni da regolare e non essere ricondotta forzosamente a quella dei confini amministrativi del comune che deve partecipare al bando di turno.