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Se l'Europa ha una futuro è nell'economia green

Se l'Europa ha una futuro è nell'economia green

L'editoriale del Presidente di AUDIS Tommaso Dal Bosco
Nell’ambito del pacchetto di riforme detto FiT for 55, l’insieme di proposte volte a rivedere e aggiornare le normative dell'UE e ad attuare iniziative al fine di garantire che le politiche europee siano in linea con gli obiettivi climatici concordati dal Consiglio e dal Parlamento europeo, l’UE ha finalmente approvato (con il solo voto contrario dell’Italia e dell’Ungheria) e pubblicato in gazzetta con efficacia dal 28 maggio scorso (pochi giorni fa) la direttiva cosiddetta Case green, che ha l’obiettivo di intervenire prioritariamente sugli edifici energeticamente meno efficienti.  Si tratta, attraverso la riqualificazione, di ridurre del 55% entro il 2030 le emissioni nocive derivanti da costruzione, manutenzione e alimentazione di edifici residenziali rispetto ai livelli del 1990.
Per l’Italia si calcola siano circa 1,8 milioni di edifici su un totale di 12 milioni

La discussione sulla direttiva è stata molto accesa e, come d’abitudine –specie in Italia ma forse non solo– molto polarizzata.
Una polarizzazione che, più che al merito, guarda a quella che potremmo sommariamente definire la contrapposizione tra europeisti e sovranisti. Tra coloro che continuano ad accusare l’Europa di un approccio ideologico e tecnocratico poco attento alle problematiche connesse all’applicazione delle sue decisioni e coloro i quali invece sono tacciati di una adesione fideistica alle sue politiche.

Proviamo a dare un’occhiata al complicatissimo merito invece.
La caratteristica peculiare della situazione italiana non riguarda tanto le condizioni oggettive del patrimonio (che pure ha le sue specificità con la forte presenza di patrimonio storico vincolato) quanto, piuttosto, le strategie per la riqualificazione. 
L’affastellarsi di normative incentivanti che sono andate via via sommandosi e sovrapponendosi (eco bonus, sisma bonus, bonus facciate, super bonus….) hanno dato luogo a una spesa pubblica elevatissima e piuttosto dispersiva. Con problemi di selezione delle misure da parte dei beneficiari spesso in difficoltà nel decidere quale tra le tante fosse la più conveniente. Ciò ha favorito le fasce di popolazione più informate e il consolidamento del valore dove già era presente. Questo non ha certo aiutato a superare e anzi ha, se possibile, contribuito ad accentuare le già grandi disuguaglianze sociali che invece dovremmo combattere con le politiche pubbliche. E non ha nemmeno aiutato a fare un salto in avanti la gran massa delle case inefficienti ed energivore che abbiamo.
Il nostr problema principale è legato alla frammentazione della proprietà immobiliare. La piccola proprietà privata la fa da padrona (concettualmente tautologico?) e non ha capacità tecniche, organizzative e finanziarie per assicurare piani di riqualificazione adeguati alle necessità. Questo non è un problema solo per il raggiungimento degli obiettivi europei. È un problema anche per la sicurezza, il confort, la qualità di vita e i costi di alimentazione energetica per i cittadini. La frammentazione pone anche altri problemi di natura sociale, tra cui l’incapacità di rispondere alla domanda di mobilità e di flessibilità a condizioni accettabili da parte delle nuove generazioni. Ma senza una politica che, attraverso la leva fiscale e la riconversione di strumenti desueti e inefficaci di supporto (tipo contributi per mutui alle giovani coppie), disincentivi la piccola proprietà e favorisca la sua aggregazione per garantire il progressivo passaggio ad una gestione efficiente basata su criteri industriali, sarà molto difficile identificare modalità efficaci per la riqualificazione massiva del patrimonio edilizio italiano.

Ma anche queste osservazioni di dettaglio, nelle quali pure io credo, ci inducono a guardare il dito e non la luna. È chiaro, infatti, che il “peso” dell’Europa in termini di emissioni climalteranti a livello globale sia trascurabile se confrontato con quello degli Stati Uniti o delle economie mondiali emergenti (BRICS) e che quindi gli sforzi per la sua riduzione siano ben poco significativi rispetto al problema del pianeta. 
Tuttavia, non deve sfuggire un altro aspetto meno frequentato su cui l’Europa gioca la sua partita, e cioè che si tratta più di strategie per la competitività di lungo periodo che non di ridurre dello zero virgola gli impatti dei propri consumi. 
Essendo infatti sprovvista di materie prime energetiche di origine fossile, dove volete che l'Europa insegua il proprio primato economico e tecnologico se non sulla riduzione dei consumi e del loro impatto?
Lo sforzo che l’Europa richiede agli stati membri è finalizzato a questo e faremmo bene ad organizzarci per farlo piuttosto che disperdere energie su battaglie di retroguardia a difesa di “diritti acquisiti” in contrasto con il futuro del continente.


03/06/2024
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