Il premio per il restauro di Venezia istituito 50 anni fa dall’Ateneo Veneto porta il nome dell’ingegner Pietro Torta, appassionato cultore dell’opera di restauro del patrimonio edilizio della città, per anni presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Venezia e Socio dell’Ateneo Veneto.
In questo mezzo secolo di vita il premio è stato assegnato (prima annualmente, dal 1999 con cadenza biennale) a soggetti che si sono distinti nel promuovere o realizzare importanti interventi di restauro e recupero del patrimonio di Venezia.
La XXXVII edizione ha avuto un vincitore un po’ particolare.
La Commissione, composta da rappresentanti dell’Ateneo Veneto, dell’Ordine degli Ingegneri della Città Metropolitana di Venezia e del Collegio degli Ingegneri di Venezia, ha infatti deciso di assegnare il Premio, anziché ad un singolo intervento, alla collettività di cittadini veneziani che promuovono e realizzano progetti diffusi di restauro.
“Veneziani per nascita o per scelta, cittadini che con ordinaria straordinarietà si impegnano ogni giorno per mantenere Venezia una città viva e attuale”.
Per completare un’edizione così speciale, gli organizzatori hanno pensato di dare un ruolo attivo anche al volume che solitamente lo accompagna, curato quest’anno da Maura Manzelle e Francesco Trovò dell’Università Iuav di Venezia. A comporre questo mosaico di progetti e scenari per il futuro sono state invitate le maggiori Istituzioni veneziane, ed in modo particolare quelle che per loro stesso mandato hanno compiti di governance e un ruolo di progettualità per la città: dalla Regione del Veneto al Comune di Venezia, a enti pubblici e privati, fondazioni, Università, associazioni di categoria e istituti culturali.
Completa il volume un inserto di fotografie realizzate da Alessandra Chemollo, veneziana “per scelta” che da anni con la sua arte racconta la Venezia materiale e immateriale e che ha abbracciato l’idea che sta alla base di questa edizione del Premio Torta.
Il volume si presenta con una copertina “riflettente”, per fare in modo che i cittadini vedano loro stessi e “riflettano” su quello che fino a qui è stato fatto e su quanto sarà ancora possibile fare per la città.
Nel corso della cerimonia del Premio Torta il libro è stato simbolicamente consegnato in sala alla Comunità veneziana e rimarrà a disposizione di quanti vorranno ritirarne una copia gratuita presso la Segreteria dell’Ateneo Veneto, in Campo San Fantin, a Venezia.
Qui il video completo della cerimonia di consegna del premio Torta, che si è tenuta il 25 novembre scorso.
A seguire, pubblichiamo invece l’intervento di Maura Manzelle, presidente della Commissione del Premio Torta, che apre il volume.
Per un progetto di restauro e innovazione
Maura Manzelle, Presidente Ateneo Veneto, Università Iuav di Venezia
Ciclicamente – spesso a seguito di grandi eventi metereologici con conseguenti disastri o in tempi recenti a fronte di numeri impressionanti di visitatori – riprendono gli accorati appelli che segnalano la preoccupante condizione di rischio in cui versa Venezia e che richiedono azioni volte a “salvarla”.
Le questioni di fondo appaiono ricorrenti e appartengono ormai all’idea che la comunità internazionale ha di Venezia, delle sue problematiche ma anche del suo fascino decadente: il rapporto con le condizioni ambientali particolarmente severe nei confronti della durabilità dei materiali, la scarsa utilizzabilità dei piani terra degli edifici che non sia quella commerciale, la necessità di un’azione costante di controllo di un ambiente fortemente antropizzato quale quello lagunare, lo spopolamento, l’abbandono della città da parte delle attività produttive, e così via. Questo modo di leggere le indubbie fragilità della città in funzione di un bisogno di salvezza deve portarci a riflettere su questo concetto – “salvezza” – chiedendoci da cosa-da chi, per chi, oltre ovviamente come pensiamo Venezia debba essere salvata.
Non dobbiamo “salvare” la città dalla trasformazione, soprattutto se leggiamo questo elemento insito nella sua storia come condizione connaturata al suo esistere e al suo continuare ad esistere, con dinamiche che hanno modificato non solo i suoi edifici, o l’organizzazione urbana, ma l’intera sua estensione, sedime, forma, e l’ambiente: potremmo dire che la resilienza, nel senso di capacità di un sistema a qualsiasi scala di accogliere i cambiamenti, reagendo e agendo per adattarsi al mutamento, è stata sperimentata qui da tempo immemore, ma forse il concetto non è sufficiente ad affrontare le nuove sfide.
Infatti, già molte riflessioni sviluppate su Venezia nel corso del ‘900 – da Le Corbusier ai docenti dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, alle Scuole CIAM, a architetti, urbanisti, storici, economisti di rilevanza internazionale – hanno inteso favorire la visione di una città “viva” proprio quando si iniziava a pensare a come preservarla, spostando l’attenzione dal restauro di singole architetture monumentali alla considerazione dell’unità del centro storico come fatto spaziale e sociale complesso e unitario.
Non dobbiamo neppure salvare la città da chi non vi risiede: città di mercanti, di scambi, di innovazione, Venezia non ha mai fondato la sua identità sull’esclusione – forse sulla gestione delle diversità e delle specificità – e oggi inoltre la società in cui viviamo richiede di pensare in modo maggiormente complesso al concetto di “cittadino” includendo diverse accezioni: coloro che frequentano la città con stabilità o per periodi; che la abitano per periodi più o meno lunghi; che lo fanno per motivi familiari, o lavorativi, o di studio; che la abitano per scelta; che la frequentano per turismo ed ancora sarebbe necessario esaminare nel dettaglio le varie declinazioni possibili del turismo; e così via.
A questa complessità sarebbe necessario prestare maggiore attenzione e approfondimento, sviluppando la distinzione tra “residenti” e “non residenti” nella valutazione della profonda differenza dei servizi richiesti, ma evitando una polemica che per alcuni tratti appare sterile e anacronistica, e principi di esclusione di un tipo di abitante a favore di un altro, ricominciando a parlare di mixite come di una risorsa e di processi di uso compatibile della città o, meglio, di come “abitare” in senso lato la città, favorendo le condizioni dello “stare qui” in considerazione di un grande patrimonio immobiliare sottoutilizzato o inutilizzato.
Forse semplicemente non dobbiamo salvare Venezia, nel senso di sottrarla da una condizione di pericolo – ovviamente tralasciando in questa sede gli oggettivi pericoli ambientali che richiedono interventi su grande scala –, ma comprendere maggiormente le dinamiche contemporanee e consentire alla città di assumere all’interno di queste un ruolo appropriato.
Ma un altro quesito è necessario porsi per stabilire l’obiettivo del nostro agire: si tratta ancora di una “città”? Quali sono le condizioni affinché una città sia una città e non altro – ad esempio una rovina archeologica, un parco a tema, un set cinematografico, una meta del turismo di calamità, e così via? L’etimologia ci indica il termine città dal latino civĭtas-atis “condizione di civis” e “insieme di cives”: il suo essere luogo di abitanti è quindi una condizione basilare, la città deve essere abitata per essere tale.
Il termine abitare a sua volta ci consente di riflettere – chiudendo il cerchio – sul concetto di appropriatezza del ruolo della città prima accennato, richiamando le comuni radici con il termine abito, ciò che più ci aderisce e si conforma al nostro corpo: il concetto stesso di abitare stabilisce un nesso imprescindibile tra contenuto e contenente – tra cives e civitas, tra abitanti e città. Rapporto, quello tra una città e i suoi abitanti, che ha caratteri tanto materiali che immateriali, ma che definisce l’una in relazione all’altro.
Il ripristino – non si può più parlare di mantenimento, forse siamo già oltre – delle condizioni per cui Venezia possa essere ancora considerata una città passa quindi attraverso la possibilità di abitarla, di viverla, ognuno con motivazioni diverse, tempi diversi, modalità diverse, ma tutte concorrenti a dinamiche appropriate alla necessaria mixité e alla particolare, oggettiva, fragilità della città.
La domanda «per chi intervenire?» ha già qui una possibile risposta: per i suoi cittadini.
Come intervenire a Venezia ha – da sempre – richiesto capacità specifiche, innovative, di altissimo livello: nulla in città può essere fatto in modo scontato, non gli interventi strutturali, non il riuso dell’esistente, non le nuove costruzioni, non gli aggiornamenti impiantistici per adeguare gli edifici alle richieste odierne di comfort e alle condizioni di conservazione delle opere d’arte, non le opere per consentire la frequentazione ad un’utenza allargata, priva per quanto possibile di barriere architettoniche, non i trasporti privati, non i trasporti pubblici, né quelli delle persone, né quelli delle merci. Ma Venezia è anche la città ove i bambini possono uscire da soli, non vi sono code da fare in auto, qualunque punto è raggiungibile a piedi o con un traghetto: la città ha sempre ripagato gli sforzi dei suoi abitanti con una altissima qualità della vita, fatta di elementi materiali e immateriali in una simbiosi unica.
Chiunque si soffermi a riflettere su una attività quotidiana non trova l’equivalente nel modo di farlo a Venezia e per questo in molti ambiti è stata e viene ancora oggi assunta come città-laboratorio, caso estremo che può concorrere a risolvere problematiche altrove presenti anche se in modo diverso, oltre che emblema del confronto tra fragilità di un centro storico e pressione delle dinamiche contemporanee: anche la richiesta di sostenibilità ha avuto qui un primo terreno di prova.
Per contro, appunto, è necessario che tutto sia pensato per questa specifica situazione, ma non solo: è anche necessario che tutte le azioni che in questa città si attuano – azioni esperte di amministratori, gestori, professionisti, o azioni dei cittadini – si compongano ad affrontare situazioni che presentano fattori mai affrontati prima. Infatti le dinamiche turistiche sono mutate e lo sono i numeri di afflusso; anche le modalità produttive sono mutate e possono trovare in città solo alcuni innovativi sviluppi; il numero di lavoratori dediti a professioni qualificate è basso in relazione alle medie regionali e quindi è necessario ripensare a quali tipi di lavoro attivare in città; i motivi dello spopolamento sono nuovi; le richieste di comfort sono mutate e i cittadini hanno diritto di vedere soddisfatte le loro aspettative; sono necessarie nuove politiche per la residenza e quindi alloggi, servizi, trasporti adeguati; le condizioni climatiche stanno cambiando, così come quelle ambientali.
È quindi necessario assumere, per quanto Venezia possieda una connatura resilienza e molto sia stato fatto, che le dinamiche in atto hanno un carattere di novità e richiedono quindi una attenzione nuova, che esca da una concezione “salvifica” per affrontare il dibattito e la ricerca su come la città possa, invece che essere sottratta ai rischi della contemporaneità, essere messa in grado di interpretarla in modo appropriato alla sua particolare condizione.
Preservare il senso di appartenenza ad un luogo fa sicuramente parte del come intervenire sul luogo stesso, grazie alle dinamiche che questo mette in atto in termini di cura costante e capillare, ripetuta nel tempo, di capacità di far emergere temi nodali, capacità di proporre e attuare soluzioni non scontate, e – in termini tecnici – di manutenzione continua, conservazione programmata, che a scala dell’intera città può essere garantita solo attraverso un’azione congiunta della società civile, degli istituti culturali, degli enti amministrativi e della politica. Il sentirsi parte fondamentale di un luogo, essere cittadini, è un valore immateriale che deve essere preservato e forse – questo sì – salvato anche per il processo di reciproca determinazione tra la tutela del bene materiale e la sua vitalità che riesce ad attivare. E il lavoro è una condizione che motiva il vivere in una città.
Registrando l’importanza che sta assumendo nelle città europee la discussione sulle esigenze e le compatibilità tra residenti, abitanti, turisti e le attività promosse dalla cittadinanza in molti centri storici italiani e Comunitari, l’approccio più innovativo e da seguire con attenzione forse è proprio costituito dalla volontà delle comunità locali – portatrici di cura, di responsabilità, di esigenze quotidiane – di riappropriarsi di ambiti di progettualità nei centri storici.
La consapevolezza sia delle problematiche che degli obiettivi imprescindibili è patrimonio della comunità abitante che si è sempre fatta carico delle difficoltà dell’intervenire per garantire le condizioni di vivibilità della città.
Aggiungo un ulteriore elemento di riflessione: le recenti crisi globali, da quella energetica e climatica, a quella economica a quella pandemica, le nuove dinamiche turistiche, stanno imponendo strategie volte a un diverso approccio all’abitare che, oltre a puntare al “consumo zero di suolo” e quindi alla rigenerazione dell’esistente, porti a rispondere a istanze di nuovi standard abitativi, all’efficientamento energetico, alla produzione di energie alternative, alla coerente gestione infrastrutturale e trasportistica, con soluzioni comuni e condivise, che spesso richiedono anche un salto di scala, un approccio territoriale e non solo progetti alla scala edilizia, caso per caso.
Tutte le “azioni” di uso e di riuso dell’esistente, anche di piccola o media entità, corrispondono ad altrettante “azioni” di restauro, rigenerazione, innovazione che trovano necessariamente soluzioni puntuali e parallelamente determinano un cumulo di impatti strutturali, ambientali e paesaggistici con conseguenze che, visto l’aumento esponenziale degli interventi, deve essere oggetto di una riflessione.
In un contesto compatto, quale quello di un centro storico, è notorio il potenziale riverbero di ogni intervento strutturale operato su un edificio negli edifici attigui; le questioni legate al controllo del microclima negli edifici, trovando soluzione individuali – addirittura per ogni singola unità abitativa – provocano una ridondanza di sistemi impiantistici, senza economia di scala e con grande impatto paesaggistico; medesime considerazioni si possono estendere all’introduzione di nuovi sistemi di distribuzione verticale per ogni edificio…
Si potrebbe continuare ad individuare azioni che operano un potenziale danno dato dagli esiti della somma degli interventi o anche, semplicemente, uno spreco di risorse.
Ciò significa che è necessario estendere l’attenzione – e non sottovalutare – i piccoli interventi diffusi per la conservazione e la trasformazione della città, plaudendo ai cittadini che se ne fanno carico e incoraggiandoli a svolgere questo indelegabile compito con sempre maggiore consapevolezza e spirito reagente, propositivo. Ciò significa anche che ognuno, nell’ambito delle azioni che gli competono, ha la possibilità di intervenire in una direzione piuttosto che in un’altra e questa scelta deve essere compiuta nella consapevolezza delle conseguenze e degli obiettivi.
La questione coinvolge molti saperi che devono intrecciarsi – da quelli economici ed amministrativi per attivare un programma di finanziamenti e incentivi della innovazione del costruito a scapito del nuovo consumo di suolo, a quelli delle competenze tecniche che devono portare un approccio innovativo e complesso per scala di progettazione e integrazione delle soluzioni – con consapevolezza e con l’ambizione di poter costituire un modello per l’innovazione sostenibile degli interventi negli insediamenti storici italiani e europei.
Infine – ma nel senso di soluzione di sintesi – l’intreccio coinvolge l’architettura, che deve appropriarsi di questo ambito di intervento che richiede spesso la rinuncia a una autorialità esibita, per dare, con i suoi strumenti, un apporto che consenta di giungere a esiti formali risolti – in altre parole alla bellezza anche nelle piccole cose.