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Contro l'uso improprio del termine Rigenerazione

Contro l'uso improprio del termine Rigenerazione

L'editoriale del Presidente di AUDIS Tommaso Dal Bosco
È uscito un nuovo libro del giornalista milanese Gianni Barbacetto il cui titolo è Contro Milano. Ascesa e caduta di un modello di città (Paper First p. 365 € 18,00).
Non l’ho (ancora) letto ma dai lanci di agenzia e da alcuni junkets che da un paio di settimane circolano, si tratta di una dura critica alle politiche di sviluppo urbano (forse, meglio, immobiliare) della città indicate solitamente come “modello Milano” ma, soprattutto, la retorica celebrativa che lo accompagna.
Non c'è dubbio, infatti, che Milano sia stata uno straordinario esempio di capacità di attrazione di investimenti, ma con quali impatti? 

Le esternalità negative del modello, secondo Barbacetto, sono tante ma sintetizzabili con l’idea di fare una città per ricchi che espelle i poveri e il ceto medio e di farlo a spese della collettività creando corsie preferenziali per investimenti immobiliari ad alto rendimento e bassa (o nulla) ricaduta sociale.
L’amministrazione di Milano ha reagito duramente denunciando il giornalista per allusioni a presunte pratiche corruttive ma io vorrei restare alla sostanza del problema. Il problema infatti esiste. Non è solo di Milano. Lo è stato anche di Londra e di Parigi (ne ho parlato proprio su queste pagine).
Infatti, fuori da intenti polemici su cui magari il libro indugia, ho sostenuto la stessa tesi in un convegno organizzato da The Plan a Napoli lo scorso mese di dicembre suscitando qualche reazione un po’ scandalizzata ma anche un certo interesse. 

La cosa sulla quale ho messo l’accento è, in particolare, l’uso improprio del termine "rigenerazione urbana".
Il termine "rigenerazione" dovrebbe essere usato con molta più cautela ed essere applicato ad una autentica dimensione di sostenibilità che significa, prima di tutto, riduzione delle disuguaglianze e riequilibrio di funzioni e servizi tra centro e periferia
Significa realizzare una città multipolare (la città dei 15 minuti) animata di servizi, lavoro e relazioni sociali, sulla carta ambita e anche disegnata nei piani ma, nei fatti irraggiungibile dato che le logiche del capitale opportunistico lo concentrano nelle più profittevoli aree centrali.

In un quadro in cui le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a coprire il fabbisogno e vi sia la necessità di rivolgersi al capitale privato, la rigenerazione urbana è diventata un modo di dire. Una locuzione buona per tutte le stagioni. Priva di contenuti autentici. Ed è difficile non pensare che possa essere usata come foglia di fico.
Ma non è così: non tutto ciò che appare è rigenerazione urbana. Spesso è semplice sostituzione edilizia o riqualificazione. Utilissime, per carità, a volte necessarie e, spesso, esteticamente appaganti.
Ma la rigenerazione urbana è un’altra cosa. E non può essere evocata se non interessa il corpo sociale delle città, se non incide sulle insostenibili disuguaglianze tra centro e periferia, se non guarda con sapienza e concretezza all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Ma dibattere per restituire alla rigenerazione urbana il suo significato più autentico, è una cosa che serve? O è una fissazione definitoria inutile che serve solo agli accademici per fare convegni?
Io dico di sì, nella misura in cui da esso, dalla sua applicazione dipendano scelte pubbliche rilevanti come, ad esempio, metterci dei soldi.
AUDIS, oramai da 5 anni, sta conducendo una ricerca-azione per meglio comprendere che cosa bisogna fare a Milano, Roma, Napoli e nelle altre città metropolitane per cambiare gli assetti degenerativi che le caratterizzano e intraprendere percorsi autenticamente rigenerativi. 

La scommessa è che, puntare ad esempio sul decentramento del lavoro, oltre che migliorare la vita di legioni di pendolari, finisce per spostare o determinare nuovi flussi di cassa che, opportunamente pilotati e indirizzati con politiche pubbliche, possono contribuire a remunerare gli investimenti necessari a costruire e gestire le infrastrutture che servono per implementarlo. 
Certo, i rendimenti non sono di quelli a due cifre, siamo intorno al 4–4,5%, ma ci sono. Non dimentichiamo che molti soldi di risparmiatori italiani sono rimasti parcheggiati a rendimenti negativi nei conti correnti bancari per anni e che costruire un ecosistema capace di dare valore anche a queste risorse costituendo veicoli sicuri e controllati è, di per sé, una funzione sociale importante: la tutela del risparmio. Per esempio attraverso garanzie dello Stato (non le dà a chi compra i titoli del debito con cui poi finanzia il PINQUA?).

E poi, di nuovo, non è compito delle politiche pubbliche porsi il problema di generare rendimenti che soddisfino le attese degli investitori (come si sta, purtroppo, facendo con gli studentati e il PNRR). 

Compito delle politiche pubbliche è costruire operazioni sensate che sappiano approfittare delle tendenze globali dei mercati dei capitali (ESG) e, dove non ci riescono (ma solo per colmare il pezzo mancante) potrà, e forse dovrà, intervenire lo Stato. 
Gli costerà sempre meno che investire direttamente attraverso le farragini della spesa pubblica.
Ecco l’importanza di sapere cosa è rigenerazione e cosa non lo è. 
Cosa è generativo e cosa è degenerativo
Cosa è di interesse pubblico e cosa non lo è.
Per decidere cosa sia degno di essere sostenuto con risorse pubbliche e cosa no.

 

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Foto di Ehimetalor Akhere Unuabona su Unsplash


05/02/2025
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