Quando il gioco si fa duro, prima che i duri comincino a giocare, sono i pigri a prendersi la scena. Si tratta di disegnare e attuare una “transizione giusta” per questo Paese, che richiede sperimentazioni, pensiero creativo, progetti sofisticati, azioni integrate, valutazioni. Insomma, politiche pubbliche. Invece, sciattamente, ci affidiamo a strumenti salvifici evocati da acronimi difficili da pronunciare e replichiamo formule che pensano al posto nostro.
Oggi, nel nostro campo, mi pare vada di moda “mettere a terra il PNRR”.
Credo voglia dire costruire progetti di sviluppo che non siano ciechi ai luoghi. Mi pare un richiamo opportuno, che conosciamo da tempo: nell’ambito della discussione sulle politiche di coesione, ne scrisse Fabrizio Barca nel 2009, sostenendo le ragioni e i metodi dell’approccio place-based.
Temo però che lo slogan riduca lo spessore di quegli argomenti e non ne colga le implicazioni operative. In primo luogo, perché presuppone che concentrare gli investimenti da qualche parte (su un’area interna, un “quartiere difficile”, un “borgo”, perché ultimamente sono tornati pure i luoghi aviti) sia condizione sufficiente per rendere efficaci gli investimenti, evitando che siano distribuiti “a pioggia” (formula che si evoca quando si intende scandalizzare).
Ora, a parte che pure la pioggia, nel nuovo regime climatico, cade concentrata, la prospettiva place-based invita non soltanto a non disperdere le risorse, ma a costruire politiche in modo non settoriale, a combinare investimenti sulle opere e investimenti sui servizi, a promuovere capacitazioni e accompagnamento dei processi, a stabilire un confronto con i territori per sviluppare apprendimento sociale e innovazione. Invita soprattutto a disegnare i meccanismi di pilotaggio dei processi di sviluppo.
Sappiamo bene che i programmi di rigenerazione urbana, per essere efficaci, vanno seguiti, ne va mantenuto in tensione il processo, costantemente rammendati (sarà questo “il rammendo delle periferie” utile?), perché i loro diversi corsi d’azione producono effetti inattesi, non intesi, a volte perversi, per cui vanno curati e da essi occorre apprendere per “aggiustare il tiro”.
Per fare ciò però, ci vogliono dispositivi adeguati alla messa a terra, perché l’atterraggio richiede un pilota capace ma pure personale di scalo. Ecco, io mi concentrerei su questo personale e sulle forme organizzative (delle “regie sociali di quartiere”, come propose nelle sue conclusioni la Commissione parlamentare sulle periferie, sulla scorta di consolidate esperienze francesi?) per dotare gli investimenti sulla rigenerazione urbana di qualche maggiore chance di successo.
Claudio Calvaresi
Avanzi – Sostenibilità per Azioni