Cosa si intende per partecipazione in rapporto alle politiche urbane? Secondo Claudio Calvaresi, che ha relazionato il 18 gennaio 2018, la risposta cambia a seconda del periodo a cui si fa riferimento.
Sono infatti 4 i cicli della partecipazione identificati da Paolo Faresi ai quali rinvia (ovviamente non sono da intendersi rigidamente chiusi essendo evidenti persistenze e sovrapposizioni). Il primo si colloca negli anni ‘70, ed è legato ai movimenti sociali urbani, si caratterizza per una domanda di “fare”, con una matrice ideologica progressista e una stretta relazione con il sistema politico. Il secondo ciclo è quello che interessa invece gli anni ‘80, in cui si sviluppano i cosiddetti movimenti egoistici (ad es. “nimby”) e quindi si fa largo una domanda prevalentemente di “non fare” associata a un rapporto con il sistema politico molto strumentale. Ma è a partire dagli anni ‘90che si afferma la progettazione partecipata (o “partecipazione progettata” volendo sottolineare il ruolo preponderante dell’esperto), proprio nel momento in cui si rompe il legame fra partiti politici e società, e la partecipazione diviene quindi il canale privilegiato per intercettare i bisogni delle comunità.
Il quarto ciclo, che interessa i giorni nostri, si esprime attraverso forme di civismo, cittadinanza attiva che producono beni pubblici muovendo da una passione tutta personale. Una vera e propria mobilitazione da parte dei cittadini che può coincidere con un’attività alla quale dedicarsi nel tempo libero (come il bibliotecario di via Rembrandt a Milano), ma anche farsi impresa in cui la dimensione dell’interesse pubblico assume una rilevanza strategica e identitaria. I percorsi avviati, che crescono numericamente anche in ragione dell’abbassamento del costo-opportunità prodotto dalla congiuntura economica che favorisce la ricerca di attività lavorative alternative, sono fatti di tentativi, fallimenti, forme giuridiche che mutano nel tempo seguendo la maturazione dell’idea o della proposta progettuale. Alcuni elementi ricorrono tuttavia in gran parte delle esperienze: l’azione collettiva, la retroinnovazione intesa come cambiamento che muove dalle preesistenze e una critica al sistema economico dominante.
É in questo contesto che nascono i community hub: luoghi concepiti per creare una comunità territoriale attraverso la rivitalizzazione di spazi dismessi e la creazione al loro interno di servizi integrati in grado, da un lato, di attrarre tipologie di fruitori diversi e, dall’altro, di garantire la sostenibilità economica mediante un marketing mix. Calvaresi cita alcune delle iniziative che rispondono a questa visione: da via Baltea 3 a Torino - uno spazio multifunzionale con laboratori artigianali, un’attività di ristorazione e spazi e attività rivolti ai cittadini - a WE_MI, un progetto del Comune di Milano volto ad avvicinare i servizi sociali ai cittadini e che ha visto nello spazio RAB la prima sperimentazione: una caffetteria che ospita due giorni alla settimana lo sportello dei servizi sociali.
Le imprese civiche così come i community hub diventano, a suo avviso, strategici per la rigenerazione perché potenziali inneschi di processi che muovono dal ripensamento di spazi dismessi per e con il contributo della comunità locale.
Se è vero che queste realtà possono assolvere all’interesse generale sotteso all’avvio di processi rigenerativi, resta da definire il ruolo delle istituzioni per sostenerle. In questo senso strumenti come il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni urbani o la ricognizione dei beni comuni operata dall’Amministrazione napoletana (DG 446/2016) secondo Elena Ostanel che, in occasione del suo intervento del primo febbraio ha riportato, fra le altre, l’esperienza di CO+ a Padova, costituiscono forme di alleanza fra public e people che possono contribuire a supportare i processi di rigenerazione e innovazione sociale.
Eppure gli strumenti non sono sufficienti, come ricordato da Ezio Micelli l’8 febbraio, il “contesto conta” e lo dimostra l’implementazione di medesimi dispositivi in territori differenti. Laddove c’è una visione strategica di lungo periodo l’efficacia degli strumenti muta radicalmente. Micelli si riferisce nello specifico alla perequazione e agli accordi ma questa riflessione si estende ovviamente a tutte le leve che possono essere utilizzate nei processi rigenerativi.
E ancora il contesto e il suo valore risultano determinanti anche per individuare il grado di affidabilità degli investimenti tanto che Nomisma ha elaborato il software "italytoinvest" basato proprio sulla misurazione del valore contestuale, di cui ha parlato Marco Marcatili nella stessa giornata. Quello avviato da Nomisma è un percorso sperimentale che, servendosi di indicatori variabili e adattabili alle esigenze, caso per caso, potrà consentire di misurare il valore di contesto, ovvero quel valore che si riferisce all’intorno che è fatto di qualità ambientale, servizi, sicurezza, socialità e che ricomprende quindi tanto beni materiali quanto immateriali. Una misurazione che, fatta a monte e a valle dei processi rigenerativi, potrà supportare, da un lato, la selezione dei luoghi a maggiore potenziale rigenerativo, ovvero quelli in cui il valore contestuale non solo è più basso ma ci sono i presupposti per ottenere maggiori benefici, e, dall’altro, la valutazione dell’efficacia degli interventi in termini ambientali, sociali ed economici.
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Contributo a cura di Paola Capriotti