In due giornate di fine ottobre Base Milano ha ospitato la prima edizione di Future4Cities, il festival delle città che cambiano. Workshop, escursioni in città, live talk e soprattutto la cerimonia finale di un premio destinato ai progetti urbani più innovativi che ha raccolto addirittura 371 candidature da tutta Italia. Ne avevamo parlato nello scorso numero di RIGENERA(TI) e qui c’è l’elenco dei progetti premiati.
Con Davide Agazzi, fondatore dell’agenzia di trasformazione urbana FROM, che ha ideato Future4Cities insieme a Will Media, Base Milano e Rappresentanza in Italia della Commissione europea, parliamo delle grandi protagoniste del festival: le città.
Ciao Davide. L’assunto di partenza di Future4Cities è che dalle città parte il cambiamento e per le città passa il futuro. Perché?
«Diciamo che nelle città i nodi vengono al pettine prima, molti fenomeni si manifestano in anticipo, così come le forme di innovazione, le mode, gli stili di vita. Quando le città funzionano in genere anticipano tendenze, sia in positivo che in negativo. Accade che sindaci e assessori si ritrovano a gestire situazioni quando il governo centrale ancora neppure le immagina, pensa al problema degli affitti brevi o della mobilità condivisa, i famosi monopattini. Se e quando interviene la legislazione nazionale su un determinato problema, già molti amministratori locali hanno dovuto farci i conti e sperimentare soluzioni. Ecco, le città sono interessanti da studiare per capire in che direzione sta andando la società. Per antitesi va detto che anche nelle aree interne o meno densamente popolate accadono cose che sono comunque significative del cambiamento in corso. Insomma spesso, quasi sempre, è la dimensione locale a raccontarci come vivremo domani»
Ed ecco perché la città è tornata ad essere al centro dell’interesse.
«Oggi vediamo tanti appuntamenti dedicati alle traiettorie del cambiamento urbano, 5-10 anni fa non c’era tutta questa attenzione, anche perché certi fenomeni che prima erano appena percettibili oggi si stanno acuendo velocemente, pensiamo al tema del clima e dell'ambiente, oppure a quello delle diseguaglianze».
Vero anche che ogni città e ogni realtà locale ha le sue peculiarità e in qualche modo fa caso a sé.
«Sì, ma in fondo le questioni sono le medesime. Da un lato magari ci sono Venezia e Firenze che devono gestire problemi di flussi, oppure Milano, Roma e Bologna che devono fare i conti con il caro-affitti, altre aree che all’opposto si spopolano ad una velocità allarmante. Parliamo dello stesso problema da punti di vista diversi. Si manifesta nelle dimensioni locali in modo diverso, anche contrapposto, perché da un lato vi è un eccesso dall’altro una mancanza, ma l’obiettivo è sempre l’equilibrio. Qualità della vita, produttività, accoglienza, inclusione, dimensione universitaria: sono poche le città o le aree in cui le varie tendenze si bilanciano. Qualche decennio fa la nostra società poteva contare su una matrice industriale solida che produceva occupazione, la crescita veniva da lì e per un certo periodo i vantaggi sono stati di gran lunga superiori agli impatti negativi di quel tipo di modello di sviluppo. Oggi le città puntano all’equilibrio tra vari aspetti, se c’è solo industria manca qualcosa, se c’è solo turismo manca qualcosa, se non c’è un settore culturale in grado di produrre vitalità manca qualcos’altro. Un buon amministratore cerca di lavorare su tutte le variabili e a seconda del punto di partenza prova a incentivare un settore o frenare una pericolosa tendenza. Tornando all’esempio degli affitti brevi, laddove mancano alberghi e strutture ricettive, i b&b costituiscono un’opportunità di nuovo sviluppo, dove invece ne hai troppi cerchi di mettere un freno sennò quell’economia si mangia tutte le altre».

La prima edizione del festival è stata un grande successo. Per i numeri ma anche ad esempio per l'eterogeneità del pubblico che ha saputo attrarre. Ve lo aspettavate?
«Eravamo abbastanza fiduciosi perché portavamo a fattore comune la conoscenza di temi legati alle trasformazioni urbane, sappiamo che il dibattito è attuale, quindi trovarsi a discuterne ha un senso. I nostri partner di Will si sono accorti che questi temi sono tra quelli che ingaggiano di più la loro comunità, generano risposte, quindi sì, ci aspettavamo un buon riscontro, anche se poi forse i risultati hanno superato le aspettative. Per quanto riguarda il pubblico, avevamo due obiettivi. Da un lato fare del festival il luogo dei progettisti, ai quali abbiamo dedicato soprattutto gli eventi di mattina. Nel pomeriggio invece appuntamenti costruiti con ottica più generalista, cercando di trattare temi anche complessi in modo più accessibile. Alla fine questa commistione tra pubblici diversi con un’età particolarmente giovane era proprio il tipo di posizionamento che cercavamo».
Parliamo dei progetti.
«Le candidature, come prevedibile, sono arrivate soprattutto dal centro-nord, però tutto sommato il quadro generale presenta un bellissimo spaccato urbano anche in zone meno ovvie. Chiaro che per fare progetti devi avere risorse, sotto una certa soglia è difficile avviare progettualità degne di nota, in quel caso la differenza la fa la capacità degli amministratori di intercettare risorse. In generale possiamo dire che il premio è stata un'ulteriore conferma dell’esistenza di un fermento locale che va ben oltre ciò che è raccontato da iniziative di settore e in contesti istituzionali.
Pon Metro, il programma per le città metropolitane, ha stimolato tanta progettualità soprattutto nelle grandi città, ed è quindi naturale che tante candidature siano arrivate da lì. Ma il premio ha mostrato come anche in città medie c’è tanta vivacità, forse addirittura maggiore».
Tra i tanti, ci dici quale progetto ti ha colpito di più?
«Ti posso citare l’assemblea cittadina per clima di Bologna, esperienza per altro replicata anche in altre città italiane, Firenze in primis, nel segno della comune appartenenza alla rete delle 100 città che vogliono raggiungere la neutralità climatica entro il 2030. Seguo con particolare attenzione tutti i progetti che parlano di nuove modalità per coinvolgere la cittadinanza, Bologna ha modificato lo statuto comunale per accogliere la fattispecie dell’assemblea cittadina.
Altri progetti a cui sono personalmente legato sono quelli per la socialità, penso alla rete di Case di Quartiere. Altro tema che ritorna è quello dello sviluppo economico locale, credo che la permanenza in un luogo sia legata necessariamente alle opportunità di futuro professionale che quel luogo sa creare».
Future4Cities ha senso solo a Milano?
«No, anzi. Partire da Milano era quasi obbligatorio, intanto perchè qui abbiamo tutti la nostra base e quindi è la realtà che conosciamo meglio, e poi perchè l’evoluzione di questa città negli ultimi 10 anni, diciamo da Pisapia in avanti, ha mostrato un teatro di sperimentazione senza pari, tra progetti top down e buttom up, sinergie pubblico-privato e coinvolgimento del terzo settore. L’intenzione per le prossime tappe però è proprio quella di esplorare nuove realtà perchè c’è molto di fertile in giro».
La riflessione sulla città è un presupposto necessario per parlare di rigenerazione urbana.
«Quando ti chiedi cosa farne di un luogo dismesso provi a metterci dentro il meglio delle tue speranze e della visione del futuro. Anche qui ovviamente è necessario l’equilibrio tra chi mette le risorse, chi gestirà lo spazio, chi lo abiterà. Conta la capacità di fare scelte anche non immediatamente intuitive, che però permetteranno risultati duraturi. Pensa al caso di Base Milano, sede del festival. Nella scelta di cosa fare degli spazi ex-Ansaldo la politica ha rinunciato alle soluzioni più comode, come alberghi e supermercati. Ne è nato invece uno spazio di creatività che oggi produce un valore per il quartiere che difficilmente funzioni economiche più tradizionali come hotel, uffici o supermercati avrebbero eguagliato. Ma era una scommessa difficilissima da fare, infatti è stato difficile trovare investitori, solo due, all’epoca, risposero alla manifestazione di interesse».
Quanto questa discussione sulle città produce risultati sul legislatore centrale?
«Questo è il problema. Di questi temi a livello locale si parla da 10 anni con una certa intensità, mentre pochissime regioni lavorano in questo senso. E ancora meno interesse si riscontra a livello nazionale dove, al di là dell’esperienza Pon Metro, c’è stato davvero poco di significativo. Il ministro Giovannini aveva diversi progetti in cantiere, ma purtroppo non ha avuto tempo di sviluppare le sue idee. Ora, se pensi anche a come si sviluppa il dibattito pubblico sulle grandi opere, sembra di assistere addirittura a una marcia indietro».
Questione di colore politico?
«In realtà direi che, purtroppo, negli ultimi 20 anni, a livello centrale, i governi di centrodestra e centrosinistra sono stati accomunati da un generale deficit di progettazione rispetto alle politiche territoriali, al netto di di quanto fatto con il già citato PON Metro e della Strategia dedicata alle Aree Interne. Per fortuna non sono mancati gli stimoli arrivati dal livello europeo».