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Asset pubblici e sviluppo: c'è anche un capitalismo buono?

Asset pubblici e sviluppo: c'è anche un capitalismo buono?

di Roberto Nastri
Posto che le trasformazioni più rilevanti di Milano sono avvenute e stanno avvenendo in aree pubbliche, il "caso Milano" solleva una questione ben più profonda della regolarità dei procedimenti autorizzativi –se Piano Attuativo o SCIA- e dei supposti conflitti d’interesse. E cioè che uso vogliamo fare degli asset pubblici: se sia più opportuno usarli  per perseguire l’obiettivo del massimo profitto oppure quello del massimo risultato sociale.

La storia delle dismissioni del patrimonio pubblico inizia con l’ingresso dell’Italia nell’Eurozona: si riteneva che, vendendo una parte del patrimonio immobiliare pubblico, si potesse ripianare il debito. Così dalla fine degli anni Novanta ai primi anni Duemila, con la Legge 560/93, lo Stato consente la vendita di centinaia di migliaia di alloggi pubblici ai privati, con risultati magri in origine e pessimi in prospettiva.
Segue il tentativo delle cartolarizzazioni. Nasce un veicolo per le dismissioni immobiliari che emette titoli obbligazionari garantiti dalle vendite, ma le cose vanno male: il veicolo s’indebita e finisce in liquidazione. 
Dopo un periodo di vendite a caso,  il D. Lgs. 85/2010 consente il trasferimento d’immobili dallo Stato alle Regioni, Province e Comuni: inizia così la stagione delle valorizzazioni -come si dice– "dal basso" e delle partnership pubblico–private, ma anche in questo caso le cose non funzionano perché i beneficiari –soprattutto i Comuni- non hanno, per lo più, le risorse necessarie per valorizzare i beni trasferiti.
Insomma, un disastro, perché sto constatando che molti degli asset venduti, svenduti o ancora in vendita senza costrutto sarebbero essenziali, oggi, per la rigenerazione territoriale di area vasta.

Si ricorre, infine, alle partnership pubblico-private per la valorizzazione di aree dismesse centrali. Le città cercano investitori, quegli stessi investitori che, ovunque nel mondo, partecipano alla trasformazione delle metropoli, rendendole attrattive per grandi imprese e persone alto-spendenti. Funziona. Tutti guadagnano: innanzitutto gli investitori, poi la proprietà pubblica che massimizza il risultato di cassa, poi il Comune che introita sostanziosi oneri di urbanizzazione ed infine –forse– la città nel suo insieme, in quanto soggetto in competizione con altre città nel mercato globale. Ma non le generazioni espulse dal centro perché, al contrario dei rispettivi genitori, devono andarsene in periferia, a causa della combinazione tra incremento dei prezzi immobiliari, dovuto alle magnifiche sorti e progressive della città nel suo insieme, e bassi salari.

Ciò che preoccupa -direbbe Amartya Sen- è la divaricazione tra sviluppo economico e sviluppo umano. Ed allora c’è da chiedersi se non sia possibile scegliere tra diversi capitalismi. Se i proprietari delle aree pubbliche non avrebbero potuto discernere tra capitale estrattivo –mutuando il temine dalle ricerche dei Nobel Acemoglu e  Robinson-  e quello inclusivo che rimandano, in un gioco di specchi, ad istituzioni rispettivamente estrattive ed inclusive, caratterizzate –le prime– dalla esclusione dei cittadini dalle scelte pubbliche e dalla massimizzazione del risultato finanziario a breve termine e -le seconde– dal coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche e dalla massimizzazione dello sviluppo economico a lungo termine e del benessere collettivo.

Se vi state chiedendo se davvero esistano diversi capitalismi, tornate alla metà del Settecento quando Adam Smith fondò quella che lo storico Yuval Noah Harari, nel libro “Sapiens”, definisce una religione, perché basata su - presunte- leggi immutabili della natura che guidano le azioni umane, mentre Antonio Genovesi teorizzava, più laicamente, la possibilità di tener conto, nella produzione di ricchezza, anche delle esternalità correlate: ciò che oggi chiamiamo, più o meno, finanza ESG.
Il paradosso è che Smith era un laico, mentre Genovesi era un prete: forse l’Occidente, in quegli anni, ha cambiato Dio.

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Leggi gli altri articoli del ciclo "La città che vogliamo" scritti da Tommaso Dal Bosco, Roberto Malvezzi, Rosario Manzo.


03/08/2025
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